Quando immagino la morte, mentre scrivo, non sono angosciato. Le scene macabre con devastazioni e annessi, sono riflessi un po’ folk e i cavalli sormontati da enormi scheletri armati di lunghe falci, sono in deposito nella mia esigua cultura letteraria, e adire il vero, fanno un po’ sorridere. La costruzione che ci facciamo di un’esperienza è sostanzialmente condizionata dalle immagini, dalla finzione letteraria, da quello che ci racconta “qualcuno” o “qualcosa”, ma che non è quel “qualcosa” o quel “qualcuno”. Ciò che si avvicina al vero, ad una rappresentazione che non sia allucinata, è sempre un po’ laterale. Occorre cambiare sempre prospettiva, posizionarsi “in un altrove”, fuori dai margini della consuetudine, per poter in qualche modo cogliere i dettagli meno eclatanti ma più connotanti, per sbirciare dietro la maschera approfittando da un momento di distrazione. Ecco, facciamo un esempio, se devo ritrarre una persona non posso affidarmi alla sua narrazione ( quella fatta di bio di Instagram e neppure quella sintetizzata nell’outfit), alla finzione che questa persona fa propria per essere. Mi devo invece concentrare sulle mani, su come le muove, come le usa per destreggiarsi, per dire e omettere. Oppure osservarla mentre dorme: immersi nel sonno assumiamo espressioni buffe che spesso sconfinano nel ridicolo ( se non nell’orrido); ma sono genuine, sono il riflesso del sogno, non hanno filtri. Straordinario è poi il poter osservare le persone da sole in auto, un luogo in cui siamo in vetrina ma nel quale pensiamo di essere sostanzialmente soli. Fantastico.
Ecco ho cambiato prospettiva nell’immaginare la morte, considerando che questo diario parlerà sostanzialmente di essa. Me la immagino così: una signora sulla sessantina, ancora piacente, anzi, desiderabile, curata. Il volto pulito con un accenno di invecchiamento tenuto sotto controllo, in particolare sul collo. Lo colgo perché è mobile ma nel contempo delicata con il capo. Fa movimenti calibrati ed eleganti, quasi impercettibili. Non si scompone mai. I suoi occhi sono quasi neri, non perché la morte sia terrorizzante; qui intendo quella intensità dello scuro che porta lucentezza. Si trucca sobriamente, perché a lei non interessa piacere a nessuno, ma non è sua intenzione neppure terrorizzare. Non è come la Sofferenza, la Violenza; loro hanno tratti più espliciti, più carnali, quasi porno. La signora Morte ( da ora con la maiuscola perché è una conoscente) ha un volto distinto ed un trucco leggero, ben dosato. Sorride amabilmente per compiacere o per gentilezza, ma non è mai lei la causa del sorriso. Lei è amabile nella conversazione, ma non fa ridere nessuno. I capelli sono ramati tendenti al rosso, ma non sono troppo lunghi, ma ben composti in un’acconciatura molto sobria. A volte li raccoglie in uno chignon basso, ma solo quando è sola. La morte è una signora borghese degli anni Settanta, ha capito che il mondo sta cambiando e i suoi tailleur introducono ora i pantaloni e si concede piccole “immoralità”, come fumare e lasciarsi sedurre dagli sprovveduti. I movimenti delle sue mani sono sempre studiati, non ha mai tentennamenti, anche nello stare completamente ferma. Fissa un punto durante le conversazioni, un punto lontano oltre la testa di chi parla, sembra vedere cose non rilevanti, ma da attenzionare. La morte quando beve un caffè ( che trova volgare) o una bevanda, lo fa sempre con garbo, con innocenza ostentata e dimessa: la falsa modestia di chi detiene un potere grandissimo e lo esercita da tempo, ma non lo può dar a vedere, perché è questo che fa la paura del potere, l’affermarsi con un sorriso anziché con una minaccia. La signora Morte sorride quando deve, ma quando lo fa è bella da morire. Veste pastello, scarpe in pelle, eleganti, sempre, comode ma non scurrili. Non ha gioielli vistosi, ma porta gli orecchini in modo straordinario, come se non ci fossero o fossero lì per caso, non penzolano mai, come se fossero immobili. Sono luminosi ma non sfacciati, sono nè piccoli nè troppo grandi: sottolineano una presenza, circoscrivono un volto adorabile. Il rossetto è accennato su due labbra appena socchiuse, le labbra di una donna quando deve dire qualcosa di fatale ma attende il momento propizio. Le sue labbra sono sempre accarezzate da un rossetto, sempre rosso, magenta preferibilmente il pomeriggio, vermiglio la sera, quando si sposa con i suoi capelli. Il rosso sulle sue labbra sembra essere mai appagato. La signora Morte è stata giovane, desiderabile, carnale, viscerale, sensuale, lucente, arrogante di vitalità. Lo era perché un tempo la si osservava passare lontano, sulla sua Fiat 130 Coupé nera, sempre lucida, pulita, sfavillante, come l’abbondanza d’anni. Ora è una donna importante, vissuta, ben collocata e rispettata, scolpita di imperfezioni che la rendono bellissima. È una donna piacevole che riempie una stanza con la sua eleganza, ma di cui ci si dimentica vivendo. Un’amabile presenza con la quale conversare risulta superfluo, dopo i convenevoli concede solo il respiro profondo, l’aria calda che effonde con regolarità, mentre i suoi seni maturi inturgidiscono una camicia di seta bianca, pulita, sobria, con un colletto dalle punte mai sfacciate, una spilla demodè, forse un lascito d’amore, che lascia intravedere la pelle, un tempo luna, oggi spiaggia.
Così è la signora Morte, bellissima, discreta, garbata, eterna e volatile.
Ti rispondo qui e tu sai che è per te. Mi piace pensare che in questa piazza enorme, piena di baccano e di inutilità preziose, ci sia uno spazio in cui uno sconosciuto ai più possa incontrare chi ama. È il paradosso della Rete, così grande da potercisi nascondere.
Mi ha colpito la tua calligrafia. È così elegante, così ben composta, robusta.
Ha in sé un vissuto di tenacia e ordine. Hai passato le “tue” e la tua calligrafia sembra ribadire che ora sei più forte, più solida. La fragilità ha portato i suoi frutti. Ora sei una donna.
Per questo da oggi ti chiamerò per nome.
I vezzeggiativi, le parole rotonde, i nomignoli teneri che ti ho riservato in questi anni, ora mi sembrano così fuori luogo. Sei una donna, devo abbandonare quel pormi nei tuoi confronti come se tu fossi ancora la mia bambina avvolta dai pigiamoni “soffici”. Ti sei sempre vestita di morbidezza. Ricordi quella volta che il tuo peluche rischiò di far soffocare Fiorella Mannoia mentre cantava I cieli d’Irlanda in Arena? Ti prese in braccio, tu che eri in prima fila e dormivi beatamente mentre la musica invadeva le rocce pensose che ci ospitavano. Fu una scena mitica.
Quando penso a te e alla vita che ci lega, mi vengono tanti aggettivi, di varia natura, di vario colore. Sei la musa degli appellativi, non sei affatto piatta e non ti spegni mai. E va bene così.
Nella tua lettera hai toccato l’argomento di questi mesi: la mia malattia.
Sì, figlia mia, te lo confermo, ho sofferto molto. Ho avuto paura. Ho temuto di perderti, perdervi, di perdere tutto. Ora che la prima onda è arrivata e non mi ha spazzato via, posso fare dei bilanci. Fare dei bilanci non significa arrendersi, non significa aggirarsi sconsolato tra le macerie dopo una tempesta. Non ho mai voluto morire, non ho mai desiderato farlo con placida rassegnazione. Ma quello che ora vivo, il lascito che mi ritrovo tra le mani, può aiutarmi a non essere infelice. I bilanci purtroppo rischiano a volte di valutare in modo negativo l’esistenza. Questo accade quando si è sbrigativi. Ma io non ho questo problema. I bilanci vanno fatti per setacciare quel che resta, gli avanzi, le royalty dei brevetti che ci hanno contraddistinto. Anche un’esperienza come la paura di morire lascia qualcosa di buono. La tempesta lascia sempre sulla spiaggia oggetti inusuali, preziosi, ossi per affilare il becco e per cantare meglio. Dopo una tempesta si dorme più beatamente.
Tito Sarrocchi, Putto dormiente (1874 circa; marmo, lunghezza 80 cm; Siena, Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena). Ph. Credit Danae Project. Immagine tratta da www.finestresullarte.info.
La morte è una cosa seria, va presa con spirito costruttivo e i bilanci ben fatti sono una parte fondamentale di questo approccio. Non temo il guardarmi dentro e il guardarmi indietro, perché ho avuto una vita piena di doni ( la mia non è la retorica del tramonto scampato, sono sincero, credimi! ). Qui potrei cedere al sentimentalismo, ma mi contengo, come posso. Mi sono arrabattato tra propositi inutili, le fatiche e gli inciampi, certo, ma il mio saldo è sicuramente, ad oggi, positivo.
Fare i conti significa anche trovare i motivi per essere grati. E la gratitudine aiuta a crescere. La gratitudine è merce preziosa, oggi, figlia mia.
Penso di aver capito, (questa è una delle voci del mio bilancio più dense di valore) che cosa significa crescere, ma a volte mi distraggo e quindi ho bisogno di ricapitolare. La distrazione è letale quando si fanno i bilanci. Crescere per me significa superare le prove, cercare la bellezza, sentire il cambiamento come un’esperienza necessaria, un fluire interiore e non come una sorte subita, imposta ferocemente ( la ferocia oggi invece la trovi ovunque, anche nello sguardo dei bambini ).
Conosci bene la mia forza ( o la mia esibizione di essa), la mia determinazione ( fatta più per orgoglio che per convinzione), la mia capacità di sopportare la fatica ( l’epica completamente veneta che celebra la fatica mi ha contagiato sin da bambino).
Conosci le mie monolitiche certezze che velavano però montagne di dubbi. Sapevo sempre quale fosse la strada; lo sapevo perché qualsiasi scelta avrei fatto, ero certo che mi sarei comunque perso. Diciamocelo: la vita è un continuo perdersi e ritrovarsi.
Torniamo a noi e al tema del “crescere”. Esistono delle stagioni ed ognuna ha i suoi sapori e i suoi profumi. Questa cosa non la puoi capire completamente perché non sei nata dove sono nato io, dove il Nulla è costellato da sentori gustativi e olfattivi. Le stagioni là odorano sfacciatamente, soprattutto quando avviene il passaggio. L’odore del verde grasso e vitale di Aprile, bagnato dalla pioggia e affondato nella terra nera, unta e brulicante di lombrichi ha il sapore acerbo delle susine poco prima della maturazione. Poi il gusto si evolve in un brodo dolce, il sapore delle colate che rigano il mento quando ci abbuffiamo di frutta matura, il verde appena tagliato che sta per seccarsi, l’odore dolciastro di Maggio. Il passaggio tra Aprile e Maggio è molto intenso. È il tuo momento. La tua paura nel diventare “grande” forse nasce proprio da questo, cioè dal vivere il trapasso tra le stagioni più dense di emozioni della nostra vita, dalla giovinezza all’età adulta ad esempio, come un trauma. Non è così, non c’è nulla di più naturale del cambiare. Lo capirai più avanti, superato il valico dell’adultità, vedrai allora che i passaggi saranno meno intensi, ma non meno dolorosi.
Diventare grandi non è un passaggio definitivo, ma è il sovrapporsi di veli di colore, di schizzi corposi, singolarmente insignificanti, in un dipinto che solo nella sua incompletezza trova il senso della propria bellezza. È un continuo, non è un passaggio definito o definibile, è come la storia, è liquido, e scorre.
Le considerazioni si fanno a posteriori e spesso non sono esaustive. Ma il passaggio dalla tela bianca alle prime croste di colore è, sicuramente, drammatico, vitale, esplosivo, meraviglioso. È come fare l’amore per la prima volta con chi si ama, poi ci si sente più grandi, più veri.
Questo è il formarsi dell’identità. Il distacco teso alla definizione del nostro “io sono” è in realtà “il cambiare”. Il distacco non è un’assenza, ma è un cambiamento; io sarò altro e tu pure.
Noi partecipiamo al cambiamento, siamo il cambiamento e non possiamo fare diversamente.
Ora, forse, può sembrare che stia precipitando nel paternalismo. Alla mia età può essere un male cronico. Ma non si tratta di questo. Per dirti le stesse cose potrei usare gli alambicchi di chi pensa di saper scrivere, cambiare la prospettiva, usare parole spezzate, le frasi che ti portano altrove, l’evocativo timbro di Craven, la sintassi cristallina dei russi tradotti bene, la magia di Màrquez, la forza di Montale quando si schermisce, la barocca raffinatezza di Bufalino, la capacità di Salinger di sparigliare per rilanciare della terza linea. Potrei tutto questo … ma la verità è semplice, semplicissima ed è mescolata con l’evidenza, per questo ci commuove. Le mie non sono sentenze, le mie sono parole semplici, covate in questo anno di “prova.
Tu diventi grande, e temi che noi, che io, invecchi e muoia.
Accadrà, ma non sarà la fine. Questa è la verità, semplice, ed emoziona “tragicamente” entrambi. Ma la vita è una commedia, ricordalo Benedetta. Ha delle repliche, ha dei successi, poi ci sono delle novità… il palinsesto cambia, ma il teatro resta. La vita è una commedia. È come quei film italiani nati per far ridere ma che senza preavviso, forse senza volerlo, fanno piangere, perché lambiscono cose che non avevamo preventivato e nel farlo, lo fanno con tanta poesia (ti consiglio qualcosa di Mattia Torre, uno dei più grandi sceneggiatori e scrittori degli ultimi tempi, un uomo che dal dolore ha tratto un’opera d’arte).
La vita è una commedia. Questo è bello. Gioisco di tutto questo: c’è tanta bellezza in noi, so che finirà, ma ora ne voglio sorbire ogni singola goccia! Siamo tutti teatranti in pellegrinaggio, siamo tutti migranti, siamo tutti in partenza. Abbiamo sempre la valigia in mano.
Bruno Catalano, scultura della serie dei Viaggiatori, particolare, Amalfi 2023. immagine tratta da Artedossier, Dicembre 2025, Giunti editore.
La malattia ha portato con sé la presenza discreta della morte, il suo esserci, seduta in salotto, silenziosa e terribile forse più per fama che per quel che è realmente ( me la immagino così, una signora borghese, educata e ben vestita, con tailleur color pastello, verde palude, che parla solo se interrogata, sa stare al suo posto e beve il caffè con impareggiabile e desueta eleganza). Mi ha accompagnato cordialmente in questi lunghi mesi. Non c’è stato un minuto senza che la sua cordiale presenza, ma pur sempre grave ( cioè avvolta da un alone di serietà funesta), si manifestasse. All’inizio è stato terribile, poi ho capito che la visitazione della Fine e della sua legale rappresentante ( moriamo per la legge del corpo ma non per quella dell’Universo), è stata un dono per redimermi dalla sciocca idea che possediamo il tempo; noi siamo posseduti, creati, immersi. Passiamo una vita nel crederci liberi, ma non lo siamo, per fortuna.
Forse di tempo ne ho sperperato un po’. Ma ne è valsa la pena.
Ora basta però, ho capito, e convintamente ribadisco che è troppo prezioso. E come il cuculo depone le uova altrove, fuori di casa e lontano dalle proprie certezze, così io mi gusto il tempo come se fosse esclusivamente mio. Mi inganno lo so, non è mio, ma questa è la forza della letteratura: ingannare per dire la verità, per sperare nella Verità.
Ma per ora non morirò, forse quella della Morte è stata una visita di cortesia, un avviso bonario teso a raddrizzarmi. Spero nel condono tombale (anche se suono male questa frase …)
Ti ho parlato del cambiamento, del dolore, della morte, del tempo. E allora? Un’ultima cosa: il grande nodo che lega tutti questi temi è la bellezza, anzi, la “Bellezza” (così diamo il giusto peso alle parole).
Mi dona tanta speranza quello che mi hai confidato, che ti sei sentita sostenuta nella ricerca della bellezza e che forse, ora, ti senti bella (lo spero tanto).
Il percorso che ci permette di abbracciare il bello ha un tempo limitato. Farlo nostro, abitarlo, toccarne le trame con i nostri polpastrelli, dargli delle sembianze, ritrarlo con le nostre esperienze: tutto questo significa rendere il nostro tempo unico, Bello. Spero tu riesca a farlo, tu riesca a valorizzare il tempo dato al tuo percorso. Spero che nel momento in cui tu ti perderai ( perché accadrà), qualcuno ti faccia un fischio e ti riconduca alla ricerca di lei, la bellezza. La ricerca, figlia, la ricerca ci fa galleggiare nella spinta ascensionale che sorvola tutta la precarietà su cui si fonda questo mistero che è la nostra vita.
Grazie per il tuo invito a scrivere. Lo farò, perché ne ho bisogno e non posso più rimandare. Non posso più farne a meno. Tua madre ha tirato fuori tutte le poesie scritte in questo mezzo secolo di vita, come conati che hanno trafitto fogli improvvisati, uno sgorgare di parole che a volte, rileggendoli, mi risultano quasi indecifrabili.
Voglio lasciare una traccia, non nel mondo , ma nella memoria di chi ho amato. Un’eredità che il tempo, le discordie, l’avidità non possono tarlare.
A volto sento dentro solo il puro desiderio, molto meno concettuale e tragico se vuoi, di scrivere perché ne ho bisogno, come se fosse fisiologico, innato, viscerale.
Farlo mi fa star bene.
L’orma che lascio nei ricordi di che mi ha amato, può essere uno spettro benevolo della mia tentata leggerezza.
Nella lettera citavi gli occhi dei miei genitori, il mio sguardo indecifrabile nel guardarli, nel fissarli nel loro perdersi. Sono smarriti ora come lo ero io da bambino. Ci siamo passati il testimone. Mi fanno tanta tenerezza. Sono attori che hanno perso la memoria e si assopiscono, magari sognano la loro gioventù, il loro esserci ancora. Ho già perdonato tutte le inadeguatezze, le occasioni mancate, gli errori voluti, fatti perché non potevano fare altro. La vita spesso ci costringe a vestire ruoli che non capiamo minimamente. Lo facciamo perché non ce ne accorgiamo o perché convinti da altro o da altri.
Angelo Morbelli, Sogno e realtà (Trittico della vita) (1905; olio su tela, tre pannelli, 112 x 80 cm, 112 x 79 cm, 112 x 80 cm; Milano, collezione Fondazione Cariplo) – immagine tratta da www.finestresullarte.info
Torniamo alla commedia e ai suoi attori. La “vita commedia” la immagino come un teatro di paese, un po’ fatiscente fuori, ma ancora pulito dentro, pieno di buone intenzioni e intriso di approssimazione e banalità. La nostra “parte”, il nostro ruolo è shakespeariano, cioè deve imparare a convivere con vette di poesia straordinarie e il rombo di un rutto amplificato dalle logge del Globe Theatre: ciò che sta in mezzo è la nostra quotidianità. Gli effetti della nostra interpretazione ( conscia o meno, pagata o amatoriale, lodevole o tragicamente comica, volgare o compiacente) li vediamo nel momento del sipario, quando ci sono gli applausi finali. Gli applausi ci sono sempre ( quasi sempre ai funerali), anzi, il rumoreggiare della “Storia” è sempre in sala per donarci i nostri 5 minuti “pop”, i nostri 5 minuti di gloria. Solo le recensioni sulla nostra interpretazione non ci riguardano.
Il nostro ruolo, i tempi comici, le attese, i silenzi tragici, gli intermezzi, lo spazio imbarazzante tra un atto e l’altro, le tresche tra il pubblico, la solitudine delle poltroncine affossate nel buio, la malinconia della maschere, il trasudare corporale dei cessi di un teatro di paese … tutto è prezioso, tutto è vita e la nostra commedia mastica il tempo.
Il tempo passa. La vita passa, e con essa tutto ciò che vi galleggia sopra.
Per questo l’Amore, la bellezza, tutto va raccontato.
Che pistolotto ti sto scrivendo… a volte perdo il contegno. Perdonami.
Grazie per avermi spronato ora e per averlo fatto in passato. Per una volta il tuo papà viene sostenuto nel fare la cosa giusta dalla sua “bambina” (concedimelo per l’ultima volta).
La tempesta è passata, la morte è partita per le sue commissioni, salutandomi a malapena.
Io ci sarò ancora.
Il compagno ingombrante che ha preso dimora nel mio ventre è stato cacciato, estirpato. Speriamo che non sia nascosto per bene in qualche anfratto del mio addome. Ha lasciato un vuoto pieno di ragioni e di pensieri. Un marchio profondo, sì, un talismano di cicatrici mi ha lasciato. Tutto è vita, anche l’assaggio della morte.
Bene. Ora basta! Concludere è difficile, ma congedarsi con stile è ciò che fa la differenza tra un imbonitore e un narratore. Il primo chiude perché conviene, il secondo perché lo deve alla “storia”.
Ti voglio bene, per tutte le volte che non te l’ho detto e per tutte le volte che non avrò il coraggio di farlo con convinzione, per distrazione, per noia, per assenza.
Questo è il mio regalo. Aspetto il tuo ritorno per un abbraccio.
Mia figlia si è innamorata. È già accaduto, ma questa volta non è una pioggerellina estiva che bagna senza convinzione, che evapora senza lasciare dolore; questa volta è un temporale robusto, carico di acqua, gravido di energia, grigio pesante, intrecciato di cobalto e rabbia.
Mia figlia ha 22 anni. Mia figlia è una donna e i suoi sguardi sono rossi come la carne ancora calda e pulsante, il suo respiro è blu e denso come la notte profonda, passeggia in modo morbido come se fossero stati smussati gli spigoli.
É felice senza motivo apparente, le sue movenze hanno il fresco verde dell’erba medica, tenera e profumata.
Il sapore rotondo di maggio si disperde dove lei siede per studiare, o per aspettare una notifica che la fa scappare veloce nella clandestinità, nell’intimità dove può tornare ad emozionarsi come una bambina.
Lui non lo conosco, ma nelle mani ha le attese di mia figlia, le sue paure, i suoi palpiti e il tremare rugiadoso delle sue ciglia, il giallo del suo ottimismo.
Lui ha aperto la gabbia in cui lei si era rifugiata, la comfort zone ( come dice Lei, nella sua lingua onnicomprensiva di ogni latitudine ), l’amena clausura. Per questo, per ora, lo odio.
Mia figlia inizia a volare lontano perché il suo cuore non ha più casa nel nido, ora vola e non posso fare nulla.
Mia figlia vive l’attesa, guardinga come la lucertola che si spiaggia al sole.
La osservo con nostalgia, penso alla bambina che è stata e che ha lasciato qualche traccia in questa donna matura, pensante, forte e nel contempo fragile; quella bambina che amava la morbidezza della lana vera, era sempre spettinata e riempiva le stanze come una folata marzolina che spariglia le carte sul tavolo e alza la polvere dai libri esausti. Quella bambina che era disordine e dolcezza.
La osservo pensare all’Amore, la spio e la invidio, invidio la sua giovinezza, la sua possibilità di poter anche perdere tutto, perché le sue primavere saranno forti come la morte, e le sue passioni feroci come il caldo bianco riflesso nell’intonaco del primo pomeriggio di luglio.
La invidio e l’accarezzo con le inutili parole di un padre che vorrebbe condividere il niente che ha capito, che vorrebbe proteggere Lei (da cosa poi?), Lei che esce dalla trincea per consegnare, senza ragione o calcolata prudenza, il petto al sentimento multiforme e spietato, che da sempre nutre il mondo, l’Amore, e lo domina con i suoi figli illegittimi. Ma sono impotente e non posso che godermi la pace custodita dal divano posto nell’angolo più fresco del mio soggiorno, dove gli spiriti che amo, come proiezioni in un dagherròtipo (che fissa con la luce le ombre), si fissano negli angoli scarni e pensosi che nessuno considera.
Mia figlia ha nei lineamenti quella soffusa e carezzevole vaporosità, un metamorfosi che accade. Mia figlia ha 22 anni, e per volere di Apollo, sottoposto e imbarazzato, sta diventando una giovane pianta di aromi fragranti, robusta, verde, dal legno elastico, sotto la cui chioma cespugliosa, gli insetti trovano conforto, le farfalle sapori, la fauna meravigliosa generosa verzura.
É morto Cula. Molti potrebbero, maliziosamente, pensare ad un soprannome che, nel periodo del politicamente corretto, abbatte l’etichetta del bon ton, e allude ad una certa inclinazione sessuale. Non è così! La mia gente, impantanata nelle Valli Grandi, ha un pudore antico e non parlano mai, credo neppure pensino, del sesso e delle sue sfumature. Sono asessuati nel pensiero ma non nelle opere.
Cula è stato un sacerdote dell’infanzia. Non è mai cresciuto, non per indolenza, non per mancanza, non si tratta di un “incompiuto”. Lui ha voluto mantenere un’ingenuità, come se il restare bambino, sotto certi versanti, fosse un privilegio.
Cula è rimasto un fanciullo, anche a sessant’anni. Un fanciullo giocoso, a volte triste, inaffidabile, esagerato solo come chi ha eternamente fame (e lui ne aveva tanta, anche in senso letterale) sa essere. Cula è morto, è morto un fanciullo di 200 kg.
Cula è il soprannome dato per le sue esplosioni di gioia. Questo eterno ragazzino, quando la felicità lo soverchiava, come somma espressione di giubilo, si calava i pantaloni e mostrava il suo luminoso e rotondo “deretano”, una pagnotta al latte solcata da un punto esclamativo.
Mu Boyan, 点 (Dot), 2013
La sua infanzia si è dilatata e cristallizzata. La sua ostinazione a perdere i treni e le coincidenze, a giocare a calcio con noi ragazzini, a rincorrere le farfalle e le ragazze, lo ha fatto diventare un mito, un adulto per finta, un folletto.
Ha succhiato tutto il dolce che si può trovare in giro, non si è svezzato; il mondo è diventato grande e lo ha lasciato solo.
Mi è rimasta per qualche tempo la convinzione che il tempo fosse un vecchio orologio di campagna, quelli rotondi e di plastica con il logo di qualche mangimificio, che si poteva rompere con una pallonata. Mi ha cullato questa speranza, per anni. Seppur intaccato dallo sporco delle cantine e dallo sterco delle mosche, quell’orologio e le sue lancette hanno continuato a girare.
Di Cula mi rimangono dei ricordi limpidissimi.
Quando giocavamo a calcio nell’aia di casa sua, che era anche la casa del mio amico d’infanzia, suo nipote, lui entrava come un tuono e colpiva con forza mostruosa la palla. Uno Zeus panciuto che aveva un sinistro missilistico.
Non l’ho mai visto lavorare.
Una volta in una scorribanda in bici, lo abbiamo intercettato sulla sui 127 blu rally edition, con i fendinebbia rotondi gialli, mentre stava in un pioppeto a fare l’amore. Il suo bianco culo ondeggiava candido come la luna sospinta dalla marea.
Le sue storie erano magiche. Noi ascoltavamo allampati, certi che il vero Vero uscisse dalla sua bocca, come acqua per noi che eravamo nel deserto. I suoi erano racconti di un’epica minore , fatta di impennate in moto, derapate e accelerate fantasmatiche, di trattori con ruote enormi impantanati sino alla cabina e liberati da forze titaniche, dal volere del nostrano dio pagano, Il Grande Trattorista, che plasma le menti dei giovani che non affogheranno mai nella poesia.
Tutto era grande, tutto era pieno dell’energia dei bambini, tutto divertiva e poi convergeva in Cula, il nostro oracolo. Lui parlava da grande ai bambini e noi ci sentivamo quello che non eravamo, uomini veri.
Pedrito a Cavallo, Fernando Botero
Il ricordo più bello è quando ci portò a fare il bagno nel fosso. Si spoglia ed entra in questa scolina avvolta da piante dai nomi sconosciuti e poco nobili. Lo seguii anch’io. Lo seguiamo tutti. L’acqua era pulita tanto che la vegetazione sommersa sembrava dipinta e artificiale. Facevamo tuffi in un metro d’acqua e lui si divertiva forse più di noi. Siano rimasti lì ore, senza rimedio, senza angoscie, liberi come dovrebbero essere i bambini.
Poi sono diventato grande. Io non sono resistito al flusso della vita. Mi sono arreso. Cula e la mia infanzia si sono rarefatti nella mia memoria, dissipati dal tempo e dalle cose da fare.
Cula rimane un’icona bella della mia vita passata. Non ci ho mai pensato. Ora che non c’è più, l’ho tirato fuori dalla dimenticanza con cui lo avevo avvolto.
In questo poche righe, con affetto, lo ricordo, con tanta gratitudine. Tanta.
Ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie. Da anni, forse per una deriva sincretica di un rito, il Natale, che include tutto il paganesimo sopravvissuto, questa giornata si è trasformata nella massima espressione dell’anarchia disciplinare e dolciaria, senza lezioni, con qualche interrogazione di recupero per i disperati (dannati che sino all’ultimo lottano per una sufficienza), senza un programma, senza un filo, meravigliosamente disordinata e goliardica, un conato di vita. Una giornata un po’ kitsch, devo dire, condita da una gioia di plastica che risulta sempre commestibile seppur per nulla credibile. Ma va bene così!
Molti ragazzi si vestono da Babbo Natale. Sono goffi nello scimmiottare uno spirito natalizio di per sé già ridicolo. Sono coraggiosi, io alla loro età non l’avrei mai fatto, e per questo li stimo, un pochino, non troppo.
Il massimo livello di tossicità lo si raggiunge il classe: pandoro (il panettone è boicottato dai teenager, sciocchi che non conosceranno mai l’esotica delizia dell’uva passa e del candito), dolcetti vari, strenne natalizie, “pigiamoni” rossi e soffici indossati nei bagni e poi tolti prima di tornare a casa, e una playlist degli orrori, tra musica trap e tutto il mainstream possibile ed immaginabile in circolazione. A questo punto l’ecosistema natalizio collassa in un nonsense: tante cose insieme che non c’entrano nulla, una perdita di equilibrio in sostanza. Ma va bene così.
Forse la più feroce dissonanza è vedere delle ragazze felici ballare mentre ascoltano un cantante fintamente incazzato (quando la rabbia fa arricchire, diventa un paradosso mortifero che travalica la possibilità di qualsiasi ironica benevolenza) e misogino che le insulta, o meglio, insulta le ragazze in generale, tutto però in pieno stile natalizio, tra cappellini rossi slavati, barbe bianche sgualcite, e andature maschili a metà tra il passo di una renna paraplegia e Santa Klaus strafatto che cerca di risalire il camino. Questa è una discrepanza (un cortocircuito) della finzione magica del momento che mi disturba. Forse è il grottesco della dimensione “malvagia” e nel contempo edulcorata del natale a disturbare. Ma basta ovvietà, va bene così.
In questa epifania di gioventù, le ragazze e i ragazzi sono gemme rigonfie pronte ad esplodere per diventare grandi e percepisco, seduto bonario in un angolo, la paura e l’attesa, lo smarrimento che prelude la rivelazione, ma loro non lo sanno, non lo colgono. Sono affascinato dalle dissonanze delle imperfezioni. Le imperfezioni sono gerarchiche, sottintendono un cambiamento, e si evolvono in altre imperfezioni, diverse, che completano un passaggio, preparandosi ad un altro successivo. Nel farlo emettono dei suoni cosmici diversi, che trillano, tintinnano, evidentemente inadatti e diversi rispetto prima, preludio di un dopo che non sarà mai armonia, ma ricerca di essa.
Noi, tutti, siamo un’imperfezione che si trasforma in continuazione.
L’adolescenza è la stagione regina del cambiamento, dell’evoluzione. Non so spiegarlo bene, ma l’attesa davanti a ciò che sarà o potrebbe essere, mi innesca una vertigine importante. Mi sento uno spettatore della Vita (con la “v” maiuscola) che si trasforma e si disvela davanti agli occhi, prepotente e sfacciata, impacciata e violenta, dolce e graffiante, fragile e di un prepotente color giallo (Van Gogh è rimasto tutta la vita un adolescente).
Essere spettatore di questo è straordinario, ma nella contingenza è non solo ordinario, ma addirittura banale. C’è e c’è sempre stato. È un ripetersi che mi ha visto protagonista in un momento di trascurabile e insignificante esaltazione.
Ma l’ineluttabile non cancella la magia del ciclo, dell’imperfezione che diventa qualcos’altro.
Lo spirito di meraviglia davanti a questo dovrebbe animare qualsiasi educatore.
“Tutti siamo imperfetti!” si accennava prima. Vero. Ci sono però due imperfezioni. Faccio un esempio da entomologo per spiegarmi (cioè per aiutarmi a capire quello che io stesso penso) sulle differenti imperfezioni. C’è infatti quella del bruco che diventerà crisalide e poi farfalla; e quella di una farfalla, sgradevole ai nostri occhi ( se può esistere bruttezza nell’originalità), ma compiuta. Quella farfalla è il compimento di un ciclo, è quello che è, e non può essere altro. Potrà sembrare singolare nella propria bruttezza, ma come ci appare è la conclusione dell’evoluzione, o un passaggio di essa e questo merita rispetto. Certo, ha margini di miglioramento, può ancora sperare, ma una falena non diventerà una rapaiola o una farfalla vulcano (o atalanta). Ma ripeto, massimo rispetto. Va bene così!
Nicolaes de Vree (1645–1702), Natura morta nella foresta con piante in fiore e farfalle,
Pensiero riepilogativo, per me, solo per me: Il bruco nella sua imperfezione può ancora aspirare alla bellezza perfetta (che non esiste, ma la futura farfalla lo capirà volando), mentre la farfalla è diventata quello che ha potuto o ciò che il destino o la Natura hanno stabilito Sono entrambi, bruco e farfalla, belli e nel contempo imperfetti, solo che il bruco può sperare ancora in altro.
Oggi assisto al manifestarsi della prima imperfezione, in questa aula abbagliata da un sole pallido, quella del bruco che attende l’esplosione, che si prepara al volo, con tutta la paura, camuffata da voglia di “spaccare”, che ognuno di noi ha avuto quando è stato adolescente.
Le attese sono il vitro della speranza, del desiderio e della paura.
Queste ragazze che ballano sgraziate davanti alla lim, chissà cosa saranno al compimento dell’attesa: cabarettista, Capo di Stato, infermiera, biologa, influencer, poetessa, ladra, sognatrice, imprenditrice, camionista, psicologa, sciamana, receptionist…
Può accadere tutto, ci sono delle variabili, ma il bruco diventerà una farfalla e tutto sarà meraviglioso, come meraviglioso sarà il cambiamento, le ali che si schiuderanno lentamente, e accarezzeranno l’aria per poterla solcare.
Gustave Doré, La prateria, 1855
Delle future farfalle ballano mentre le osservo quasi commosso, immerse nella banalità del natale commerciale venduto nei market cinesi; ballano in attesa di volare. Questo penso durante le mie ore di lezione, seduto ad accarezzare con gli occhi la mia classe mentre festeggia, apparentemente felice (quanti dolori sono accantonati, ora, con forza). All’improvviso, maledetta!, parte la canzone Shiva & Paky – Digos (Official video). Fa parte del gioco. Sto semplicemente invecchiando. Va bene così. Buon Natale.
Mi sono ripromesso di scrivere. Devo fare violenza contro di me. Superare la comodità dell’inadeguatezza. Posso permettermelo, qui sono nella mia camera in una meravigliosa solitudine. Fanculo ogni scrupolo.
Oggi, davanti ad una tazza di tisana preparata da Debora, alloro e tisana, abbiamo iniziato a parlare dei “massimi sistemi”. Che bello osare così in alto con l’incoscienza dei bambini. Parlare di cose alte solo per farlo, esaurire il volo tra l’infuso fumante di alloro e il vasetto del miele. Che bella sensazione.
Fata elettricità
Abbiamo parlato di chiusura. Abbiamo la sensazione di chiuderci invecchiando. Chiuderci mentalmente, chiuderci nella ricerca e nella passione che sta alla base di ogni percorso. Abbiamo parlato di consapevolezza. La consapevolezza come l’esserci, il conoscere le parole che decorano o definiscono la vita, la consapevolezza come presenza a se stessi. Parlando di questo ho voluto rimarcare l’importanza delle parole in questo viaggio. Le parole sono luoghi da abitare e ogni parola circoscrive un mondo, una finestra, una brughiera.
Fata elettricità
Debora con i suoi occhi di ragazza, secca ogni velleità e mi mette al muro, con la dolcezza di chi ama:”Ma che cosa significa la parola Amore per te?”. Panico. Tante parole, slanci, fumo e riccioli di panna, per poi trovarsi disarmati davanti ad una domanda così semplice. Ci penso. L’Amore per me è immersione… e comincio un “pippone” stratosferico. Ad un certo punto mi sono perso e ho chiosato con eleganza. Lei mi ha guardato, piena d’amore… ma non ha capito un cazzo. Aiuto! Devo uscire dal pantano. “E per te che cos’è l’Amore?”.
Fata elettricità
“Non lo so…”, mi risponde, lei è sempre stata sincera, forse troppo.
“È una cosa che vivo, che sento, ma è troppo grande, non la so spiegare…”
Ecco l’intelligenza d’amore delle donne di cui parla Dante.
Debora ammette un non possesso, perché lei è amore. Definire sé stessi è un’avventura complicata, quasi impossibile.
Per oggi basta. Sono orgoglioso della mia ignoranza. Mi si “spiegano’ davanti praterie immense.
Ho scoperto Morgana, un podcast di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri. L’ho intercettato su Spotify. La benedizione della casualità, smanettando nella rete immerso nella noia, ho incontrato una luce, sono inciampato in qualcosa di prezioso. La cosa che mi emoziona è ascoltare la Murgia sapendo che non c’è più. Anzi, che è altrove, non qui, ma sicuramente diversamente “viva”. Per questo parlerò di lei al presente.
Non sto qui a tessere l’elogio della Murgia, non ne ha bisogno. Ma mi piace pensare a come la parola sopravviva al nostro corpo, sia l’estensione del nostro io. Le parole come atomi che compongono la nostra persona. Questo assemblaggio del nostro io avviene con parole nostre e con parole altrui, che ci lambiscono, urtano o accarezzano. Noi viviamo nelle parole e non nell’esserci fisicamente. Le parole della Murgia, la sua energia, la sua materna intelligenza che, grazie all’ironia e a una forza interiore che invidio, batte e raddrizza. La Murgia è come le donne di una volta: fa tutto quello che fanno gli uomini, i padri, e poi si occupa di tutto il resto (perdona Michela questa ovvietà e perdona la mia confidenza).
La Murgia, Michela Murgia, è una delle più grandi menti del secolo in cui anch’io vivo. Ma senza preoccuparmi di esagerare, penso di poter affermare che è il più grande cuore che ha pulsato in Italia.
Ascoltarla mi dà la forza di non ripetermi, di non crogiolarmi, di non fermarmi ai pensieri comodi e alle opportunità più digeribili. Ascoltarla mi lascia sempre qualcosa di nuovo e di insostituibile. Ascoltarla è vivere consapevolmente l’esperienza della crescita interiore. Anche le domande che mi faccio dopo che le sue parole mi hanno destato come un fischio, hanno un sapore diverso. Con lei non si mastica banalità.
L’ho vista a Mantova, al Festival della Letteratura, anni fa, al bar con un’altra persona, a prendere un aperitivo. Aveva un vestito bellissimo, di quelli per cui serve coraggio. Lei ne ha tanto.
Scrivere mi attira, ma mi manca il tempo. Leggo, seguo tutorial, spulcio blog e pagine dedicate alla scrittura creativa, compro collane per iniziare aspiranti scrittori. Poi penso che in fondo sto semplicemente scrivendo un diario, e mi sento così sciocco. Scrivere per esibire la tecnica è così sterile. Si spintonano nella mia testa immagini, frasi, verità disvelate che però non escono dalla mia testa. La mia testa come una stanza di amenità e di ricordi, la stanzetta per scrivere le mie cose e la poesia, il locus amoenus in poche parole. Voglio liberarmi… un flusso d’acqua che stilla dai miei occhi. Svuotarmi per poi riempirmi di nuove cose e di nuovi intrecci. Desidero nuove prospettive, ascoltare nuove parole e farle mie. Ma non ci riesco, sono avvinghiato ancora all’utilità pratica, al fine. Non riesco a godermi il viaggio. Notte mondo.